IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Emette  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento di sorveglianza
 relativo a Mele Nazario, nato a Sannicandro Garganico (Foggia) il  26
 novembre  1929,  in  atto ristretto nella c.r. Turi (Bari), avente ad
 oggetto: semiliberta' (art. 48 l.p.).
                             O S S E R V A
    Il Mele ha chiesto di espiare in regime di  semiliberta'  la  pena
 residua  inflittagli  con  sentenza della corte d'appello di Lecce in
 data 22 aprile 1987, per vari reati, tra cui sequestro di  persona  a
 scopo  di estorsione commesso nel brindisino "fino al 6 giugno 1984".
 Per tali fatti fu condannato alla pena detentiva di anni  diciotto  e
 mesi dieci di reclusione, di cui mesi sei sono stati condonati per il
 d.P.R.  n. 865/1986. Poiche' e' stato arrestato in data 7 luglio 1984
 ed   ha   beneficiato   di   liberazione   anticipata   per    giorni
 cinquecentottantacinque,  risulta  avere espiato oltre la meta' della
 pena  da  scontare,  presupposto  necessario  per  l'ammissione  alla
 semiliberta'.
    Essendo  stato,  tuttavia,  condannato (anche) per il reato di cui
 all'art. 630 del c.p., non potrebbe egualmente  essere  esaminata  la
 sua istanza ove il tribunale non ritenesse che egli abbia prestato in
 sede  di  cognizione,  ovvero  anche dopo la condanna, l'attivita' di
 collaborazione con la giustizia cui  fa  riferimento  l'art.  4-  bis
 della  legge  n.  354/1975,  come  da ultimo novellato con l'art. 15,
 primo comma, del d.l. n. 306/1992 conv. nella legge n. 356/1992.
    Nella specie, non risulta che il condannato  abbia  prestato  tale
 collaborazione (v. sentenza di condanna in atti), e lo stesso ha anzi
 dichiarato  in  camera  di  consiglio  di  non  averla  mai prestata.
 Sicche', non risultando utile neppure il ricorso ad operazioni  quali
 lo  scioglimento del cumulo di pene operato in sentenza - giacche' il
 Mele non ha comunque interamente espiato gli  anni  diciotto  e  mesi
 quattro  di  reclusione  imputati  dal  giudice  della  cognizione al
 delitto  di  sequestro  (e  la  situazione  non  muterebbe   ove   si
 imputassero solo a tale titolo i sei mesi d'indulto poi ottenuti - al
 tribunale    non   resterebbe   che   dichiarare   l'inammissibilita'
 dell'istanza di misura alternativa.
    Ad  avviso  del  collegio, tuttavia, come l'altronde e' stato gia'
 ritenuto da questo e da altri tribunali  di  sorveglianza,  sia  pure
 nell'ambito  di  procedimenti aperti per la revoca di misure alterna-
 tive gia' concesse (art. 15, secondo comma, del d-l.  n.    306/1992,
 conv.  nelle legge n. 356/1992), la normativa suindicata (art. 4- bis
 della legge n. 354/1975, nuovo testo),  la  cui  applicazione  appare
 imprescindibile  nell'attuale  procedura,  donde  la  rilevanza della
 questione, non si sottrae  a  consistenti  dubbi  relativi  alla  sua
 costituzionalita',    alla    stregua    delle   considerazioni   che
 sinteticamente si riportato di seguito.
    1)  Contrasto  dell'art. 4- bis, primo comma, primo periodo, della
 legge n. 354/1975, con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    La disciplina in  questione  confligge  con  il  "diritto  per  il
 condannato  a  che,  verificandosi le condizioni poste dalla norma di
 diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione  della  pretesa
 puntiva  venga  riesaminato  al  fine  di  accertare se in effetti la
 quantita' di pena espiata abbia o meno assolto positivamente  al  suo
 fine  rieducativo"  (Corte costituzionale n. 204/1974, i cui principi
 sono stati confermati ancora di recente).
    E' stato infatti gia' rilevato che per l'obbligatorio accertamento
 di requisiti (collaborazione con la giustizia) inerenti per  lo  piu'
 ad  una condotta pregressa e condizionata da scelte non comprimibili,
 pena il sacrificio di altri beni costituzionalmente  garantiti  (art.
 24 della Costituzione) - scelte peraltro dirette da finalita' affatto
 diverse da quelle che orientano il condannato in via definitiva verso
 il proprio reinserimento sociale -; requisiti che nei confronti della
 maggior   parte   degli   interessati  non  ricorreranno,  per  cause
 indipendenti dalla loro volonta' (errore  giudiziario;  indagini  che
 per  la loro completezza e rapidita' hanno escluso la possibilita' di
 apportare qualsiasi contributo ulteriore all'accertamento dei  fatti,
 all'individuazione    o    alla   cattura   del   colpevoli,   ovvero
 all'eliminazione delle conseguenze dei reati; posizione peculiare del
 singolo partecipe, che poco o nulla gli abbia consentito di conoscere
 sull'organizzazione criminale di appartenenza; ecc.),  il  condannato
 per uno dei reati indicati nella norma censurata puo' vedersi privato
 di quel diritto alla verifica del proprio stadio di risocializzazione
 che   la   giurisprudenza   costituzionale  ritiene  implicito  nella
 previsione di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    In sostanza, si rileva che la novella ha presunto iuris et de iure
 la materiale possibilita', da parte del  condannato  per  determinati
 reati,  di  poter  contribuire  all'attivita'  di  indagine ovvero di
 giudizio a quelli relativa. Ma e'  evidente  che  si  tratta  di  una
 risposta  esasperata  dello  Stato all'aggressione delle associazioni
 criminali, giacche' non si vede per  la  tutela  di  quale  superiore
 interesse  il  condannato  non sia quantomeno ammesso a dimostrare il
 contrario,  anche  costituzionalmente  garantiti   (art.   24   della
 Costituzione)  - scelte peraltro dirette da finalita' affatto diverso
 da quelle che orientano il condannato  in  via  definitiva  verso  il
 proprio  reinserimento  sociale  -; requisiti che nei confronti della
 maggior  parte  degli  interessati  non   ricorreranno,   per   cause
 indipendenti  dalla  loro  volonta' (errore giudiziario; indagini che
 per la loro completezza e rapidita' hanno escluso la possibilita'  di
 apportare  qualsiasi contributo ulteriore all'accertamento dei fatti,
 all'individuazione   o   alla   cattura   dei    colpevoli,    ovvero
 all'eliminazione delle conseguenze dei reati; posizione peculiare del
 singolo partecipe, che poco o nulla gli abbia consentito di conoscere
 sull'organizzazione  criminale  di appartenenza; ecc.), il condannato
 per uno dei reati indicati nella prima censurata puo' vedersi privato
 di quel diritto alla verifica del proprio stadio di risocializzazione
 che  la  giurisprudenza  costituzionale   ritiene   implicito   nella
 previsione di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    In sostanza, si rileva che la novella ha presunto iuris et de iure
 la  materiale  possibilita',  da parte del condannato per determinati
 reati, di poter  contribuire  all'attivita'  di  indagine  ovvero  di
 giudizio  a  quelli  relativa.  Ma  e'  evidente che si tratta di una
 risposta  esasperata  dello  Stato all'aggressione delle associazioni
 criminali, giacche' non si vede per  la  tutela  di  quale  superiore
 interesse  il  condannato  non sia quantomeno ammesso a dimostrare il
 contrario, anche attraverso l'allegazione di un complesso di elementi
 da sottoporre alla valutazione del tribunale di sorveglianza.
    2) Contrasto dell'art. 4- bis, primo comma, primo  periodo,  della
 legge n. 354/1975, con l'art. 3, primo comma, della Costituzione.
    La  disciplina  considerata  appare  in  contrasto  anche  con  il
 fondamentale principio di uguaglianza, quantomeno  sotto  i  seguenti
 due profili:
       a)  le misure alternative alla detenzione divengono accessibili
 solo per coloro che, di fatto, abbiano la materiale  possibilita'  di
 fornire  la  richiesta collaborazione, e non, invece, per coloro che,
 condannati per identico titolo di reato, si trovino senza loro  colpa
 nell'impossibilita'   di   fornirla.   E',   questa,   l'ineluttabile
 conseguenza  dell'avere,  il  legislatore,   ancorato   lo   speciale
 requisito     di    ammissibilita'    alla    intervenuta    condanna
 dell'interessato  per  determinati  titoli  di  reato,  astrattamente
 considerati,  senza  che  sia  attribuito  alcun rilievo alla realta'
 storica dei fatti ed alla particolare posizione  dell'interessato  (a
 parte  le  modifiche,  di  ben modesta portata, introdotte in sede di
 conversione del d.l. 306/1992, e confluite nel primo comma,  secondo
 periodo, dell'art. 4- bis citato);
       b)  la  normativa,  con  il  coartare la delazione da parte del
 condannato per determinati reati, attraverso la minaccia di deteriore
 trattamento punitivo, discrimina tra loro i cittadini quanto a doveri
 di denuncia di fatti costituenti reato. In tutti  quei  casi  in  cui
 l'informazione  in  possesso  del  condannato  fosse  tale  da  poter
 provocare il  coinvolgimento  di  soggetto  sino  ad  allora  rimasto
 estraneo  alla  persecuzione penale, infatti, tale condannato sarebbe
 indotto a fornirla onde evitare di dovere espiare  l'intera  pena  in
 istituto;  altro  cittadino,  che  per  avventura  avesse  egualmente
 conosciuto l'identita' del colpevole rimasto ignoto, potrebbe  invece
 mantenere tranquillamente il proprio atteggiamento omertoso, giacche'
 il  cittadino  comune e' tenuto a denunziare, ai sensi dell'art. 364,
 del c.p., i soli delitti contro la personalita'  dello  Stato  puniti
 con  l'ergastolo.  E  da  un  lato non si vede perche' al condannato,
 diversmanete  che  all'altro,  non  sia  concesso  di  poter   temere
 eventuali  ritorsioni  da  parte  del  denunziato,  d'altro canto non
 potrebbe ritenersi che un eventuale iter di risocializzazione di quel
 condannato debba necessariamente passare attraverso quella denunzia.
    3) Contrasto dell'art. 4- bis, primo comma, primo  periodo,  della
 legge n. 354/1975, con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
    Da  ultimo,  ad  avviso  del  collegio, le nuove norme appaiono in
 contrasto con  il  principio  costituzionale  della  irretroattivita'
 delle previsioni che attengono alla sanzione penale.
    Diversamente  da  quanto,  in  sede  di dibattito parlamentare, fu
 stabilito a proposito dei piu' gravosi requisiti di  ammissione  alle
 misure  alternative,  per  i  condannati per determinati reati con la
 legge n. 203/1991, la novella dell'agosto scorso risulta  applicabile
 anche nei confronti dei condannati i quali, come la Torcasio, abbiano
 commesso  i  reati  in  epoca  anteriore  all'entrata in vigore della
 riforma.
    Ove  si rifletta che e' concettualmente impossibile distinguere il
 nomen di una  sanzione  penale  dalle  regole  che  concretamente  ne
 disciplinano   l'esecuzione  (che  cosa  sia  la  reclusione,  ovvero
 l'arresto o l'ergastolo, non puo' desumersi solo dai loro  nomi,  che
 storicamente  hanno  avuto  ben diversi significati, ma proprio dalla
 disciplina positiva della loro esecuzione, in un determinato  momento
 storico),  ne'  la  legge  penale  generale italiana prevede principi
 ovvero caratteristiche particolari atti ad individuare  il  contenuto
 specifico   di  ciascuna  pena,  facendo  invece  rinvio  alle  norme
 dell'ordinamento penitenziario; ove cio' si condivida,  non  potrebbe
 con  concludersene che anche il complessivo regime punitivo stabilito
 per un determinato reato deve poter essere conosciuto  ante  delictum
 dal suo autore.
    Di  tale  regime  fanno certamente parte i presupposti sostanziali
 per essere ammessi alle misure alternative alla detenzione,  che  con
 le   disposizioni   censurate,  lungi  dall'essere  state  rese  piu'
 accessibili da parte dei cd. collaboratori di giustizia  (siccome  si
 e'  invece  stabilito  con la legge n. 82/1991), sono state del tutto
 precluse a coloro che non abbiano potuto, o voluto collaborare.